L'Irpinia quarant'anni dopo il terremoto
Il 23 novembre del 1980, alle 19 e 34 minuti, tre infinite scosse di terremoto cambiarono in 90 secondi la storia dell'Irpinia e dei suoi abitanti. 2.914 morti, 280.000 sfollati e quasi 9.000 feriti: nel buio di quella domenica sera centinaia di comuni tra Basilicata e Campania si ritrovarono da un momento all'altro isolati tra loro e con il resto d'Italia, ridotti alle fondamenta e divisi tra lo strazio per le perdite umane e i disperati tentativi di salvare i superstiti. Sono passati 40 anni dall'inizio di quella tragedia. Una data che rappresenta, è banale dirlo, una cesura netta in cui tutto si è spezzato, non solo la terra. Da quel giorno i vivi, i sopravvissuti, hanno dovuto fare i conti con un paesaggio che non tornerà, con case e luoghi di vita spariti o abbandonati, con paesi diversi ricostruiti in diversi luoghi, con legami recisi e comunità spaesate nel senso più profondo della parola.
Le storie della ricostruzione irpina sono tante e tutte diverse, esprimere un giudizio complessivo è impossibile e forse inutile ma lo sradicamento che tante comunità hanno sofferto è tangibile ancora oggi ovunque. Conza della Campania, ad esempio, è stata praticamente distrutta dal terremoto e la scelta fu di abbandonare lo splendido paese arroccato sulla collina per ricostruirlo da zero a valle. Il risultato è disorientante. Schiere di villette intorno a una moderna piazza commerciale, con la precisione geometrica del cemento e l'ampiezza piatta della planimetria a marcare la più totale distanza dal disordine pendente del vecchio paese. La cittadinanza c'è, è molto presente e visibile, ma le mura e le strade del paese ancora a decenni di distanza non sembrano rispecchiarla, come si trattasse di un rendering infelice alla prima bozza. Conza vecchia, all'opposto, sembra combattere ancora, rimasta a metà tra parco archeologico, con le rovine romane venute alla luce a causa del sisma, e il paese fantasma, nei fatti abbandonato velocemente in una notte ma profondamente legato ai suoi vecchi abitanti. Le poche mura rimaste, la cattedrale, il campo da calcio trasmettono sì la sospensione tipica dei luoghi abbandonati ma soprattutto restituiscono un senso del tempo diverso, come se 40 anni non fossero per fortuna tanti abbastanza per determinarne la fine. Ovunque in Irpinia i crolli e i danni subiti dagli edifici hanno avuto come primo e ovvio effetto il trauma umano, la perdita dei famigliari, degli amici, quella delle proprie case, molte persone hanno visto sgretolarsi i luoghi di un'intera vita, le chiese, i bar, le piazze. A questo sono seguiti gli anni di estrema precarietà, con la paura a ogni nuova scossa e una nuova quotidianità nelle migliaia di insediamenti temporanei sorti nelle vicinanze dei paesi crollati. Insediamenti che ancora oggi contraddistinguono il paesaggio, che siano inglobati nei nuovi piani urbanistici o isolati in mezzo alle campagne, sono rimasti un segno sul territorio impossibile da ignorare.
L’Irpinia era già allora in profonda quanto silenziosa trasformazione, ed è forse l'esempio più emblematico e invisibile della crisi delle aree interne italiane. l'Irpinia è al centro del meridione italiano, è tagliata fuori dalle grandi vie di comunicazione e ormai da decenni soffre per lo spopolamento causato dall’imponente flusso migratorio verso le città, verso il nord Italia e verso l'estero. Castelnuovo di Conza, proprio sopra l'epicentro, ha ormai solo 400 abitanti. È da sempre caratterizzato da una storia di emigrazione e questo non può non riflettersi in un'ospitalità commovente, come se l’intero corpo dei cittadini accogliesse insieme. Il progetto per ricostruire il paese, dopo i tantissimi crolli, cercava di conciliare la struttura originale con le intuizioni di architetti moderni, ma gli anni sono passati, le persone nel frattempo emigrate, i soldi finiti, e il paese si è piano piano spostato in periferia, intorno agli edifici commerciali, le case popolari e agli insediamenti temporanei. Come in una metropoli moderna in preda alla una forza centrifuga gli abitanti si sono insediati nelle nuovi edifici o sono rimasti nei prefabbricati, più vicini ai campi e alle vie di comunicazione, perdendo il rapporto con le piazze, i vicoli e il cuore del vecchio paese. Il risultato è un centro quasi interamente ricostruito ma malinconico, in cui la perfezione di certi angoli rende ancora più dolorosa l'assenza umana e in cui i pochi abitanti, spesso giovani coppie, che provano a ripopolarlo, appaiono come testimoni di un legame mai completamente reciso.
Il terremoto del 1980 ha accelerato la tendenza migratoria e la controversa ricostruzione ha sommato ad essa ulteriori cambiamenti nella composizione anagrafica ed economica disseminando il territorio con centinaia di aree industriali, praticamente una per comune. Isolate e disperse, scollegate dal sistema delle infrastrutture e spesso troppo piccole per dare luce a economie di scala, questi minuscoli distretti industriali hanno soprattutto contribuito a modificare la struttura sociale dell'Irpinia. Tanti lavoratori hanno lasciato il settore agricolo senza immaginare che molte delle imprese arrivate dal nord avrebbero sofferto, riducendosi o chiudendo nel giro di pochi anni contribuendo a ulteriori ondate di emigrazione. Bisaccia è distante 20 km e qualche valle dalla zona dell'epicentro, come tanti altri piccoli comuni poggia su una frana. Le vittime furono 2 e il paese non subì gravi danni agli edifici. Ma grazie ai finanziamenti per la ricostruzione colse l'opportunità di attuare un vecchio progetto urbanistico. un nuovo insediamento a qualche chilometro di distanza, dal nome un po' didascalico: Piano regolatore. Il vecchio paese nei fatti non si è più ripopolato, le case vuote, abbandonate o non ristrutturate sono la maggioranza. Gli abitanti di Bisaccia hanno visto la loro vita cambiare per sempre perché il Piano regolatore è molto più simile a una piccola città che a un paese. La chiesa in cemento armato (dove molte persone anziane non vanno più tanto è diversa dal loro concetto di chiesa), i complessi di case popolari, le strade provinciali e statali, i quartieri, tutto questo ha sostituito le piccole vie, le sedie davanti alle porte, il vicinato più prossimo, in altre parole: il paese. Può sembrare una banale retorica nostalgica, in parte lo è, ma il concetto di spaesamento non mi è mai apparso più chiaro di così.
Il paesaggio dell'Irpinia sembra contenere ogni singolo momento di questi quarant'anni. Spesso si dice che nei luoghi dimenticati il tempo sembra fermarsi, qui non è così. A Conza della Campania, Teora, Castelnuovo di Conza, e poi a Bisaccia, Calitri, Laviano, Balvano e in tutto il vasto cratere irpino lo scorrere del tempo sembra aver preso dolorosamente un altro binario. In cui il presente è per sempre marcato dalla memoria, orale e visiva, di quel giorno, in cui ogni dialogo o racconto inizia e finisce con il 1980, in cui cicatrice e ferita sono costantemente aggrovigliate e sembra di vivere in due epoche diverse incastonate l'una sull'altra, senza che nessuna possa mai prendere il sopravvento.
Le storie della ricostruzione sono tante e tutte diverse, esprimere un giudizio complessivo è impossibile e forse inutile ma lo sradicamento che tante comunità hanno sofferto è tangibile ancora oggi ovunque. Conza della Campania, ad esempio, è stata praticamente distrutta dal terremoto e la scelta fu di abbandonare lo splendido paese arroccato sulla collina per ricostruirlo da zero a valle. Il risultato è disorientante. Schiere di villette intorno a una moderna piazza commerciale, con la precisione geometrica del cemento e l'ampiezza piatta della planimetria a marcare la più totale distanza dal disordine pendente del vecchio paese. La cittadinanza c'è, è molto presente e visibile, ma le mura e le strade del paese ancora a decenni di distanza non sembrano rispecchiarla, come si trattasse di un rendering infelice alla prima bozza. Conza vecchia, all'opposto, sembra combattere ancora, rimasta a metà tra parco archeologico, con le rovine romane venute alla luce a causa del sisma, e il paese fantasma, nei fatti abbandonato velocemente in una notte ma profondamente legato ai suoi vecchi abitanti. Le poche mura rimaste, la cattedrale, il campo da calcio trasmettono sì la sospensione tipica dei luoghi abbandonati ma soprattutto restituiscono un senso del tempo diverso, come se 40 anni non fossero per fortuna tanti abbastanza per determinarne la fine. Ovunque in Irpinia i crolli e i danni subiti dagli edifici hanno avuto come primo e ovvio effetto il trauma umano, la perdita dei famigliari, degli amici, quella delle proprie case, molte persone hanno visto sgretolarsi i luoghi di un'intera vita, le chiese, i bar, le piazze. A questo sono seguiti gli anni di estrema precarietà, con la paura a ogni nuova scossa e una nuova quotidianità nelle migliaia di insediamenti temporanei sorti nelle vicinanze dei paesi crollati. Insediamenti che ancora oggi contraddistinguono il paesaggio, che siano inglobati nei nuovi piani urbanistici o isolati in mezzo alle campagne, sono rimasti un segno sul territorio impossibile da ignorare.
L’Irpinia era già allora in profonda quanto silenziosa trasformazione, ed è forse l'esempio più emblematico e invisibile della crisi delle aree interne italiane. l'Irpinia è al centro del meridione italiano, è tagliata fuori dalle grandi vie di comunicazione e ormai da decenni soffre per lo spopolamento causato dall’imponente flusso migratorio verso le città, verso il nord Italia e verso l'estero. Castelnuovo di Conza, proprio sopra l'epicentro, ha ormai solo 400 abitanti. È da sempre caratterizzato da una storia di emigrazione e questo non può non riflettersi in un'ospitalità commovente, come se l’intero corpo dei cittadini accogliesse insieme. Il progetto per ricostruire il paese, dopo i tantissimi crolli, cercava di conciliare la struttura originale con le intuizioni di architetti moderni, ma gli anni sono passati, le persone nel frattempo emigrate, i soldi finiti, e il paese si è piano piano spostato in periferia, intorno agli edifici commerciali, le case popolari e agli insediamenti temporanei. Come in una metropoli moderna in preda alla una forza centrifuga gli abitanti si sono insediati nelle nuovi edifici o sono rimasti nei prefabbricati, più vicini ai campi e alle vie di comunicazione, perdendo il rapporto con le piazze, i vicoli e il cuore del vecchio paese. Il risultato è un centro quasi interamente ricostruito ma malinconico, in cui la perfezione di certi angoli rende ancora più dolorosa l'assenza umana e in cui i pochi abitanti, spesso giovani coppie, che provano a ripopolarlo, appaiono come testimoni di un legame mai completamente reciso.
Il terremoto del 1980 ha accelerato la tendenza migratoria e la controversa ricostruzione ha sommato ad essa ulteriori cambiamenti nella composizione anagrafica ed economica disseminando il territorio con centinaia di aree industriali, praticamente una per comune. Isolate e disperse, scollegate dal sistema delle infrastrutture e spesso troppo piccole per dare luce a economie di scala, questi minuscoli distretti industriali hanno soprattutto contribuito a modificare la struttura sociale dell'Irpinia. Tanti lavoratori hanno lasciato il settore agricolo senza immaginare che molte delle imprese arrivate dal nord avrebbero sofferto, riducendosi o chiudendo nel giro di pochi anni contribuendo a ulteriori ondate di emigrazione. Bisaccia è distante 20 km e qualche valle dalla zona dell'epicentro, come tanti altri piccoli comuni poggia su una frana. Le vittime furono 2 e il paese non subì gravi danni agli edifici. Ma grazie ai finanziamenti per la ricostruzione colse l'opportunità di attuare un vecchio progetto urbanistico. un nuovo insediamento a qualche chilometro di distanza, dal nome un po' didascalico: Piano regolatore. Il vecchio paese nei fatti non si è più ripopolato, le case vuote, abbandonate o non ristrutturate sono la maggioranza. Gli abitanti di Bisaccia hanno visto la loro vita cambiare per sempre perché il Piano regolatore è molto più simile a una piccola città che a un paese. La chiesa in cemento armato (dove molte persone anziane non vanno più tanto è diversa dal loro concetto di chiesa), i complessi di case popolari, le strade provinciali e statali, i quartieri, tutto questo ha sostituito le piccole vie, le sedie davanti alle porte, il vicinato più prossimo, in altre parole: il paese. Può sembrare una banale retorica nostalgica, in parte lo è, ma il concetto di spaesamento non mi è mai apparso più chiaro di così.
Il paesaggio dell'Irpinia sembra contenere ogni singolo momento di questi quarant'anni. Spesso si dice che nei luoghi dimenticati il tempo sembra fermarsi, qui non è così. A Conza della Campania, Teora, Castelnuovo di Conza, e poi a Bisaccia, Calitri, Laviano, Balvano e in tutto il vasto cratere irpino lo scorrere del tempo sembra aver preso dolorosamente un altro binario. In cui il presente è per sempre marcato dalla memoria, orale e visiva, di quel giorno, in cui ogni dialogo o racconto inizia e finisce con il 1980, in cui cicatrice e ferita sono costantemente aggrovigliate e sembra di vivere in due epoche diverse incastonate l'una sull'altra, senza che nessuna possa mai prendere il sopravvento.